IL SECONDO VOLUME DELLA SAGA DI ALEXANDER E’ ORA DISPONIBILE SU AMAZON!

Palazzo del Male è in pieno fermento. La reggenza è passata in nuove mani, un nemico che allunga i propri tentacoli per attirare a sé gli alleati.

Spingendosi da un capo all’altro del continente, Alexander intraprende un lungo viaggio alla ricerca dei legami con il proprio passato e delle strade intrecciate al suo futuro.

In un’epoca diversa, una guerriera vaga seguendo il miraggio della Piramide di Ikara. In un turbine di misteri, inganni e fughe rocambolesche, i due combattenti si troveranno a seguire destini paralleli sul filo di un’antica profezia.

IL PRIMO VOLUME DELLA SAGA DI ALEXANDER

Qualcosa si sta muovendo a Palazzo. Da troppi anni, la capitale del Regno del Male è sopita in un sonno letargico.

Govan, il Consigliere dell’entità demoniaca conosciuta come Cuore del Male, Signore di Palazzo, ha radunato i futuri membri della diciannovesima Squadra della Morte, i paladini del Regno.

In un mondo carico di odio e antichi rancori, il giovane Alexander si trova a ricoprire un ruolo che lo porterà alla gloria o alla perdizione.

Un Capitolo di “Alexander – Le Squadre della Morte

Qualcuno entrò nel corridoio delle celle. Il prigioniero udì una serie di passi. Provò a calcolare in quanti potessero essere. Chiuse gli occhi e si concentrò. Uno… due… tre… e ce n’è anche un quarto. Ma altri rumori li accompagnavano. Il primo era il classico sferragliare di catene trascinate, un suono comune in una prigione. Il secondo era un cadenzato colpo secco, come di legno su pietra.

Ecco svelato l’inghippo, pensò il prigioniero. Due guardie scortavano un carcerato. Un druido li accompagnava.

Quando furono in prossimità della sua cella, credette la ignorassero come se non fosse mai esistita. Invece si fermarono. Il prigioniero udì il tintinnare delle chiavi e poi lo scatto della serratura. Le guardie non si erano nemmeno degnate di dare una sbirciata preventiva dallo spioncino. Come biasimarle, pensò. Legato com’era al muro, non poteva spostarsi dalla parete nemmeno di una decina di pollici. Per quattro lunghe notti aveva dormito appeso ai ferri e per tre giorni aveva urinato nei pantaloni.

Il chiavistello prese a scorrere nella corsia e la porta della cella fu aperta. Attraverso le croste di sangue rappreso che gli appesantivano le ciglia, il prigioniero si accorse di aver indovinato. Uno dei guardiani era entrato nella cella buia, subito seguito da un druido anziano, come indicava la pregiata fattura del bastone nodoso su cui stringeva il palmo. La guardia gli avvicinò malignamente una torcia accesa al viso, ben sapendo che l’individuo lì recluso era accecato a causa dell’assenza di luce degli ultimi giorni.

Sfidando il bagliore, il prigioniero guardò in faccia il suo aguzzino. Si trattava di una di quelle guardie che l’avevano pestato a sangue al momento della cattura. Gli sorrise beffardo pensando a quanto sarebbe stato utile come cavia vivente nei suoi esperimenti per far rivivere parti del corpo amputate e ancora sanguinolente.

Trovi la cosa divertente, mostro?” chiese la guardia avvicinandogli ancora di più la fiaccola al volto. Poté sentire il calore della fiamma fargli evaporare il sudore sulla fronte.

Il carceriere stava masticando forsennatamente una foglia di tabacco. Senza sapere perché, proprio confermando le parole dell’altro, il prigioniero lo trovò divertente. La guardia s’imbufalì e gli sputò in faccia. Poi, con un pugno lo colpì alla bocca dello stomaco.

Calma, calma” intervenne il druido. “L’accusato deve ancora subire il giusto processo.”

La guardia non si arrese, anche se si acquietò un poco. “Perché, serve un processo a questo bastardo? Tutti noi siamo stati testimoni dei sacrilegi che ha compiuto. Se ripenso a tutti quei cadaveri…”

Sarà lo Spirito della Collina a emettere il verdetto. Chi siamo noi semplici umani per giudicare un nostro pari?”

Lui non è… umano” insinuò la guardia arricciando il naso.

Lo è, almeno per metà. Te lo garantisco. Portiamolo fuori. La cella puzza come un letamaio.”

Il prigioniero fu slegato dai ceppi agganciati al muro. Gli furono applicate delle catene ai polsi e alle caviglie. Le maglie erano poche e fu costretto a camminare facendo piccoli passi.

Uscendo dalla cella, diede una fugace occhiata al compagno di sventura. Era un uomo tutto pelle e ossa. Le vesti strappate pendevano flaccide, i lunghi capelli unti sparsi attorno alla testa gli davano le sembianze di un salice piangente. L’aspetto smunto rivelò che doveva essere rimasto in cella per molto più tempo rispetto a lui. Forse un mese.

I due prigionieri furono scortati fino a una scala di pietra. Le guardie li spronarono con dei calci. Salire venticinque ripidi gradini di pietra era una vera impresa per chi aveva passato giorni e giorni immobilizzato al muro e scarsamente nutrito.

I prigionieri furono tenaci. In superficie c’era qualcosa che ciascun essere vivente avrebbe desiderato dopo tutto quel tempo in gattabuia. Non si trattava della fragile speranza di un’assoluzione – la loro condanna alla pena di morte era certa – ma semplicemente di rivedere la luce del sole, sentirne i caldi e dorati raggi sulla pelle.

Un tale piacere non fu loro concesso. Le guardie li incappucciarono sul pianerottolo e li caricarono su di un carro parcheggiato sotto a un portico.

Il prigioniero ascoltò i futili discorsi tra il conducente e un membro della scorta. Il guidatore sosteneva che la moglie lo tradisse con il fabbricante di selle. Comunque, ribadì, ciò non aveva alcuna importanza. Lui la tradiva con la consorte del sellaio almeno da un paio d’anni.

Il druido doveva essere lì con loro, dentro il tendone del carro. Il prigioniero ne percepì la presenza al suo fianco. Il druido sapeva di muschio e di erba fresca e di corteccia d’albero. Tutti odori a lui così familiari.

Un’ora di viaggio fu sufficiente per arrivare a destinazione. Incappucciarlo non era servito a molto. Il prigioniero sapeva già dove sarebbero stati condotti.

Qualcuno lo scaraventò giù dal carro con una pedata. Il malcapitato riuscì a girarsi durante la caduta e atterrò su di una spalla, lussandosela. Sempre meglio che cadere di faccia e rompersi il naso, pensò.

Ha ha ha! Guardatelo poverino, il mostro è inciampato nelle sue stesse gambe” lo canzonò una guardia.

Il prigioniero non si scompose. Sin dalla più tenera età era abituato a essere insultato e malmenato. Lo chiamavano mostro, orecchione a punta e bambino con la faccia da vecchio.

D’improvviso gli levarono il cappuccio e fu costretto a socchiudere gli occhi. La luce del sole era accecante ma confortevole. Faceva dimenticare tutti gli spiacevoli avvenimenti accaduti dalla sua cattura fino a quel momento.

Quando le pupille si furono abituate al chiarore, si rese conto che aveva centrato il luogo di destinazione.

Qualcuno lo chiamava ‘il Santuario’, altri semplicemente ‘la Collina’. Per la Congrega dei Druidi era la loro casa madre, il territorio di origine della stirpe, il luogo di nascita e di formazione di Yluruam, il primo leggendario druido. Agli occhi di un profano sarebbe sembrata un’anonima bassa collina sprovvista di vegetazione e circondata da centinaia di ettari di fertili boschi. Il bosco era conosciuto con il nome di ‘Anello’ per via della sua forma circolare.

Il villaggio più vicino era Gleesh, una piccola cittadina di uomini dediti a quei lavori che i druidi non svolgevano. Ad esempio, la prigione di Gleesh serviva anche a ospitare i rari trasgressori delle leggi della natura in attesa di giudizio.

Da tempo immemore, la cima della collina ospitava delle rovine. Blocchi squadrati di pietra granitica erano stati disposti in epoca arcaica l’uno sull’altro a formare delle mura. Il tetto era crollato da secoli, così come alcune statue che adornavano quello che in passato era un tempio dedicato a una divinità ancestrale. L’architettura risaliva al periodo della Magna Guerra, forse antecedente alla formazione del Grande Regno, quel famoso impero situato oltreoceano.

L’arrivo di un gruppetto di persone interruppe il flusso di pensieri del prigioniero. Fu spinto di nuovo in avanti e non riuscì a mettere bene a fuoco il viso dei nuovi arrivati. Lui e l’altro inquisito furono costretti a precedere la comitiva di guardie, druidi e altri individui.

La salita fu più dura del previsto. Le gambe erano ancora anchilosate per la permanenza nella prigione, il sudore della fronte scendeva copioso negli occhi e il ferro mordeva la carne fino a farla sanguinare. La collina era bassa ma ripida, insidiosa per degli uomini incatenati.

Finalmente raggiunsero la sommità e si fermarono, aspettando istruzioni dalle guardie. Furono sistemati in piedi, legati schiena contro schiena, al centro di un piccolo spiazzo erboso tra le rovine. I presenti si sedettero su una serie di blocchi granitici disposti in circolo attorno allo spiazzo. Si ricomposero e indugiarono in silenzio. L’attesa non fu lunga.

C’era un motivo per cui la Collina era ritenuta un luogo sacro. Non per le rovine. Non perché era al centro del bosco o perché era ritenuta la patria della Congrega dei Druidi. La Collina era venerata per l’ospite che vi dimorava.

Il silenzio accompagnato dal cinguettio degli uccelli fu interrotto dal fischio di una folata di vento che accarezzò il manto erboso. Un piccolo mulinello d’aria fece vorticare alcune foglie prelevate dal bosco fino all’altezza di sei piedi, poi le lasciò ricadere a terra. Una leggera brezza costeggiò le mura ancora in piedi, svoltò nel punto in cui una volta doveva esserci stato un portone e passò tra i presenti facendo svolazzare le vesti.

A parte i druidi, tutti gli altri si mossero nervosi. Il signore di quel luogo, lo Spirito della Collina, era tra loro.